Quando una vita è forte, sincera, libera, e svincolata da ogni convenzione, anche della propria scelta religiosa, necessita di essere ricordata e che la sua storia sia divulgata in questo sito.
E’ la vita di Giovanni Franzoni, che fino al 1973 era abate alla basilica di San Paolo Fuori le Mura a Roma. Teologo ascoltato da Paolo VI, il più giovane italiano al Concilio Vaticano II. Poi l’estromissione, arrivata dopo la denuncia delle collusioni fra Chiesa e poteri forti, la presa di posizione a favore del divorzio, la dichiarazione di voto per il Pci. Le sue omelie erano come fuoco, a favore della Chiesa dei poveri e contro il capitalismo. Allora era una voce che non si poteva ignorare.
Dom Giovanni Franzoni (“dom”, dal latino dominus, è predicato d’onore attribuito ai monaci benedettini), ha vissuto da prete ridotto allo stato laicale ma non scomunicato, fra i primi animatori delle Comunità di base che cercano di cambiare le strutture della Chiesa senza una bandiera che connoti il loro status di credenti. La sua Comunità ha sede a Roma in un locale spoglio ma dignitoso di via Ostiense. Tavoli di legno attorno ai quali ancora Franzoni, con discrezione, fino all’ultimo ha concelebrato messa con gli amici. Fra loro anche alcuni sacerdoti: spezzavano il pane recitando l’anafora assieme. “Un cattolico marginale”, si definì lui stesso nell’”Autobiografia” pubblicata da Rubbettino, defilato e, per anni, dimenticato dalle gerarchie. Anche se, due anni fa, un segno per lui fausto arrivò: alla presentazione del suo libro in Campidoglio intervenne, a sorpresa, anche Matteo Maria Zuppi, allora vescovo ausiliare di Roma, oggi arcivescovo di Bologna.
In una intervista a Repubblica raccontò di come avvennero le sue dimissioni da abate di San Paolo, lo strappo con le gerarchie che lo portò a fondare la Comunità di base in una fabbrica dismessa dell’Ostiense dopo le prese di posizioni sul divorzio e aborto: “In Vaticano mi denigravano. Dicevano che mi ero venduto al Pci. Una domenica in basilica un giovane pregò perché suo figlio potesse crescere in una Chiesa dove non si fa speculazione finanziaria come aveva da poco fatto, con tanto di deplorazione pubblica da parte dell’Associazione Bancaria Internazionale, lo Ior. Paul Mayer, a quel tempo segretario dei Religiosi, reagì. Mi disse che visto che ero così “democratico” dovevo accettare le sue condizioni: sottoporre ogni atto pubblico al parere dei superiori. Presi tempo. In una riunione della Comunità si alzò Vincenzo Meale. Disse che dovevo obbedire perché altrimenti sarei stato l’unico a pagare. Però, spiegò, “è certo che se accetta le censura, la mia esperienza con la Comunità finisce qui”. Fu un lampo, un’illuminazione appunto. Risposi: “Ho capito”. E il lunedì seguente dissi a Mayer che volevo dimettermi. E così ebbe inizio la mia nudità”. Prego? “Spogliato di ogni sicurezza, mi trovai fuori dall’apparato ecclesiastico. Certo, non ero ancora sospeso a divinis. Fu dopo che dovetti lasciare l’abito”.
Dopo il Concilio la Chiesa aveva aperto al rinnovamento. Franzoni la pungolava, deciso a tornare sui testi biblici per recuperare la figura storica di Gesù e il suo autentico messaggio. Fu Pier Paolo Pasolini a scrivere di lui: “Non c’è sua predica che prendendo convenzionalmente il pretesto dal Vangelo o dalle Lettere di San Paolo, non arrivi implicitamente ad attaccare il potere”. Ben altro dicevano Oltretevere. Un giorno in Basilica gli mandarono l’abate Tonini, dei monaci Silvestrini. Disse ai monaci che vivevano con lui che il Papa piangeva per causa sua. In pochi gli rimasero amici. Fra questi il cardinale Pellegrino. All’inizio del ‘74 Franzoni aveva già lasciato la Basilica e abitava in un appartamentino di via Ostiense. Pellegrino andò a trovarlo, e alla domanda su perché fosse a Roma rispose: “Non ho niente da fare qui, sono venuto solo per chiederti scusa per come ti abbiamo trattato”.
testo tratto dall’articolo di Paolo Rodari su Repubblica del 13 luglio 2017. Leggi tutto l’articolo