The Finger and the Moon Project by Luca Panaro
(…) Nella seconda parte di un più vasto progetto intitolato The Finger and the Moon, l’artista Liuba ha deciso di sfruttare le potenzialità offerte dalle nuove tecnologie, creando un evento espositivo, performativo e multimediale di grande interesse. La particolarità di questo lavoro risiede nella creazione di un network di gallerie sparse in tutto il mondo invitate ad ospitare contemporaneamente una performance live trasmessa mediante una rete telematica.
Se è vero che internet rappresenta per l’uomo la realizzazione del suo innato desiderio di ubiquità, quest’opera di Liuba ne è la sua più evidente manifestazione. La facoltà di essere presente simultaneamente in luoghi diversi, normalmente concessa soltanto alle divinità, può essere virtualmente estesa a tutto il genere umano grazie all’utilizzo del web. Non a caso il successo di questa tecnologia risiede proprio nella possibilità di moltiplicare il proprio “io” all’interno di un social network.
In The Finger and the Moon #2 Liuba dimostra di avere compreso questa particolarità del nostro tempo, indirizzando la propria ricerca in quella direzione. L’ubiquità ottenuta mediante le odierne innovazioni, acquista un significato particolare anche in relazione al contenuto del messaggio trasmesso. La performance ha infatti come tematica la riflessione sulle principali religioni del mondo, evidenziando affinità fra Ie differenti modalità di preghiera concesse. Il luogo scelto da Liuba come teatro della sua azione performativa è tanto insolito quanto carico di simbolismi, si tratta infatti di Piazza San Pietro in Vaticano. Lo stesso si può dire per l’abito utilizzato dall’artista, un esemplare unico creato assieme alla stilistaElisabetta Bianchetti, un vestito apparentemente simile a quello indossato dalle suore cristiane, ma con diversi accorgimenti che consentono a Liuba di praticare contemporaneamente la preghiera musulmana e quella ebraica, la meditazione buddista e varie posizioni yoga-indù.
Questa performance è stata preceduta da The Finger and the Moon #1, opera realizzata nel 2007 durante l’inaugurazione della 52° Biennale di Venezia. Ma nella seconda parte del progetto per la prima volta Liuba condivide con il suo pubblico una parte della performance, nel video ricavato dall’azione precedente l’artista ha scelto minuziosamente quello che desiderava mostrare, in The Finger and the Moon #2 si apre invece al caso, all’imprevisto, atteggiamento tipico di chi si affida alle tecnologie. L’intento dell’artista è quello di stabilire uno stretto rapporto con gli spettatori che assistono alle sue azioni performative. La partecipazione e l’interazione con il pubblico inconsapevole ma curioso è una componente fondamentale della sua opera.
Sarà ormai chiaro come questo progetto artistico rifletta sulla tolleranza, sull’accettazione della diversità, sulla ricerca di una sintonia con il divino, raggiungibile mediante differenti comportamenti rituali. Ma è anche una critica alla presunzione che si nasconde dietro ogni religione, l’esistenza di un solo Dio che esclude gli altri, quindi la chiusura e purtroppo il fanatismo che ne consegue. In Oriente si dice: «Se qualcuno vi indica la luna, guardate la luna e non il dito puntato a indicarla». La religione è quel dito, indica una via, ma per seguirla è necessario guardare oltre, senza trincerarsi dietro le usanze di un solo credo religioso, ma accettando le diversità come una risorsa necessaria al raggiungimento del nostro desiderio di infinito.
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(…)All’apparenza una suora, venne in questo luogo di pellegrinaggio per pregare a mani giunte, sgranando il rosario e dandogli la sua voce. Ma l’abito da suora può trarre in inganno. Liuba non è una comune suora; nella filosofia ecumenica, lei si avvicina più a al-Falsifa e a San Tommaso. Dopo aver pregato Yahweh, con la stessa intensità devozionale, Liuba dispiega un tessuto arancio sul suolo di piazza San Pietro e, utilizzando una bussola, pratica usata dai mussulmani per orientarsi verso La Mecca con accuratezza scientifica, pregò Allah.”
Liuba e’ giunta in Vaticano per pregare non per se stessa, non per altri, non per cause particolari, ma per dimostrare gli eguali diritti dell’individuo che confessa il suo credo. E’ arrivata in piazza San Pietro per pregare ‘con’, per far compenetrare le tradizioni religiose della sua cultura a quelle delle altre. Santa Liuba pregò mediante le preghiere della religione Indù, assumendo la posizione de “l’albero della vita” con le mani aperte e le dita che toccano i pollici; pregò come i Buddisti, con le gambe incrociate e la mano sinistra sopra la destra, recitando il nam mioho renge kio mantra; ha seguito il percorso del “circolo della vita” dei nativi americani indossando i colori delle quattro direzioni, giallo, rosso, nero e bianco, mentre bruciava della salvia in un guscio di conchiglia; ha letto dal libro sacro del Giudaismo, Mincha e Arvith, oscillando come gli ebrei fanno al Muro del Pianto…
Given the religious zealotry of our moment, the risk she took cannot be underestimated; and it is not overreaching to imagine that she walked into a lion’s den of persecution.
Lest it be thought that Liuba acted callously and merely to provoke violence with a naïve impunity, while risking a polymorphous and perhaps perverse blasphemy and a pointless martyrdom, it is crucial to understand that she studied with an Imam to pray as Muslim’s do; was advised by a Rabbi; studied Brahman and Zen rituals; and with an Inuit shaman. Finger and the Moon was performed with great care and accuracy, with sincere devotion and is a genuine and groundbreaking work of religious art, in the ecumenical, scholastic traditions of Thomas and al-Falsifa. But given its symbolic location in Piazza San Pietro, it must also be interpreted as a form of civil disobedience meant to raise questions about religious conflict, violence, power and the role of the state. It raises questions about the power of symbolic and direct action that in her work mirror the difficult conundrums of personal faith and political commitment that are wrapped up in such pressing issues of separation of church and state, the legislation of morality, the mechanical inhumanity of secular politics grounded in neoliberal financial capital where ‘value’ has no other meaning than economic value. Liuba brings powerfully to bear ideas of free speech, the relation of public speech and to private responsibility, in a nexus where appearance and reality are elided, where the expected and the unexpected collide, where the Other is forced to confront the Other, where, ultimately, difference resists all resolution to sameness, and the paradox of al-Falsifa’s two gods are bound together like two north or south poles of a magnet. We might imagine the effect causing the compass to loose its bearings. How might we navigate through a religious center so radically displaced?
Lest it be thought that Liuba’s performance was only a private act, it is equally important to know that her embodiment of religious paradox, of her manifestation of an irresolvable aporia of faith, was captured by dual cameras and streamed live over the internet to a plurality of sites. Like most works of religious art, hers was a widely public one based on the power of witnessing, significantly bridging the physical world with the virtual world, the world of unsuspecting random pilgrims in St. Peter’s Square with the expectant home and gallery audiences gathered to participate in the performance. The real-time and real-space of the event has been transubstantiated as a database not limited by time and space, commensurate with global capital, aesthetically mirroring the cosmology required to maintain the religious world view, just as the two camera points of view maintain on a formal level the impossibility of resolving the differences between Judaism, Christianity, Islam, Hinduism, Zen, and Native American faiths. Finger and the Moon suggests a kind of hierology of displacement, of the aporia between the real and the apparent that is the very condition of religious faith. It puts faith where it is best suited – in suspension between ‘worlds,’ whether these worlds are actual, virtual, or ‘faithfully’ imagined.
Liuba’s performative act goes still further. If a nun of uncertain order, a nun who is clearly ‘out of order,’ is a figure of religious aporia, she must lie beyond “properly human action” that is strictly policed by religious doctrine, where humanity is forced to confront its own limits. But because a nun is also a woman, Liuba displaces the masculinism at the heart of the hieratic by challenging the very dogma that it is the priestly role to certify through the setting of definitive limits, including those of gender. Thus, Finger and the Moon is also a powerful challenge to the patriarchy so endemic to most religious practices. St. Liuba’s patron saint is the 16th century St. Teresa de Ávila, the Carmalite nun of Jewish origins who at the age of seven ran away with her older brother to experience martyrdom among the Moors. In her book, El Castillo Interior, a clear reference to the 13th century Sufi doctrine of Abu-l-Hassan ash-Shadhili, she analogized the journey of faith by comparing the contemplative soul to a castle with seven successive interior courts that symbolized the seven heavens. Surely, whatever one thinks about religious faith, and this writer is an atheist, Luiba’s entry into Piazza San Pietro must be understood as a journey into at least the first of these seven courts, where religion and politics, the public and the private, the syncretic constitution of religion, and therefore of faith, are inseparable.
If Liuba has other patron saints, they would be Fellini and Gertrude Stein. St. Teresa plays an enormous part in the latter’s monumental Four Saints in Three Acts, where she is given the ecstatic role that Bernini immortalizes in his sculptural homage to her in Santa Maria della Vittoria in Rome. For Stein, St. Teresa is a figure able to bridge feminine and masculine power, erotics, and language, in a powerful assembly of poetic imagery. Fellini is an evocative figure here because of his trenchant filmic treatments of the rife contradictions between religion, sexuality, politics and the everyday life of Italians. But it also a useful context in which to understand Luiba’s aesthetic practice, to understand her culturally-oriented, filmic, character-driven performances. Many of her works would easily fit into his films because they use absurdity as social critique to confront the contradictions between individualism and public norms. Liuba’s work is deeply Italian, while also able to challenge the absurdities at the root of our globalized culture, with a candor and critical devotion equal to that of Fellini. Finger and the Moon is a remarkable work of syncretic aesthetics. That St. Teresa, Bernini, Stein, and Fellini impossibly find a disjunctive synthesis in her performances speaks volumes for the uniqueness and power of her courageous work.
Such rational faith in the aesthetic necessity for art to confront religion and its politics could not be achieved by anyone but a saint. Liuba in a new patron saint of a profoundly activist art.
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The Finger and the Moon #3 by Alessandra Gagliano Candela
Il primo contatto con “The Finger and the Moon” è stata la diretta streaming da piazza San Pietro a Roma nel 2009: l’abito di Liuba, che richiamava quello di una suora, nero, aveva il velo mosso dal vento. Ricordo che mi colpì il coraggio dell’artista. Toccare il tasto delle religione di questi tempi era una scelta difficile, ma interessante.
Così, quando, venuta a Genova per un altro evento, mi ha detto di essere rimasta affascinata dalla chiesa sconsacrata di Sant’Agostino e di voler riproporre il progetto in una versione ampliata, come una performance collettiva, l’idea mi è piaciuta. Tanto più quando, approfondendo il concetto, ha pensato di farlo precedere da un lavoro sul territorio.
L’impresa, tutt’altro che facile, ha confermato che nel campo della religione il vero dialogo è ancora in fase di costruzione.
Dopo una mappatura ad ampio raggio con le confessioni religiose storicamente maggiormente presenti sul territorio, il progetto è stato diffuso su un doppio canale: attraverso contatti personali, o attraverso Internet ed i social network, intrecciando tra loro contatti reali e contatti virtuali, il thé condiviso intorno ad un tavolo e quello idealmente bevuto insieme davanti allo schermo del computer. La richiesta di coinvolgimento ha previsto due possibilità, sostenere in qualche misura finanziariamente il lavoro o partecipare alla performance.
La prima è subito apparsa la più difficile: le varie istituzioni religiose avevano già propri progetti nei quali impegnavano le risorse disponibili, di portata pluriennale come nel caso della Comunità Ebraica, o comunque decisi con larghissimo anticipo come per quella buddhista. Tutti hanno lodato l’idea, ma esservi coinvolti direttamente si è rivelata tutt’altra cosa.
Liuba non si è comunque arresa ed è riuscita a compiere un lavoro sul territorio di proporzioni ciclopiche, un’indagine a tappeto la cui vastità stupisce per la quantità degli incontri, solo inizialmente supportati dalla collaborazione dell’antropologa Barbara Caputo. Le foto del backstage ne mostrano la portata e testimoniano la costruzione di una rete che ha accompagnato la crescita del progetto, rivelando dietro il velo delle credenze religiose un desiderio di relazione umana, una necessità di condivisione che le arti visive dell’ultimo quindicennio hanno individuato con l’Arte Relazionale.
Proprio per questo intreccio, la portata dei risultati umani e culturali di “The Finger and the Moon #3” per certi versi ha superato il semplice fatto artistico, riuscendo a costruire un evento collettivo di grande interesse.
Tanto più importante perché sviluppato con un medium, la performance, la cui singolarità ed apparente caducità, ha fatto sì che fuori dall’ambito ristretto dell’arte contemporanea, sia ancora guardato con un certo sospetto. Emblematicamente, Marina Abramovic nel film-documento girato in occasione della mostra al MOMA nel 2010, sottolinea di godersi la fama mondiale attuale dopo essere stata a lungo considerata una sorta di folle.
II. La performance
Scenario naturale dell’evento, l’antica chiesa sconsacrata di Sant’Agostino, si è fin dall’inizio proposta come uno snodo importante del progetto performativo di Liuba. .Autentico luogo di culto fino alla fine del XVIII secolo, Sant’Agostino conserva memoria della sua funzione passata ed una pregnanza storica legata ad una sacralità complessa, che l’ha resa un luogo insieme difficile ed indimenticabile.
Nel suo rigore bianco e nero, la navata centrale si è rivelata il naturale percorso della performance, partendo dalla gradinata in legno che nell’allestimento ha sostituito l’altare e che ha costituito per l’artista e per i partecipanti il più affascinante luogo dal quale avviare l’evento.
Anche le due precedenti fasi di “The Finger and the Moon” di Liuba si sono svolte in luoghi simbolici, all’opening della Biennale e in piazza San Pietro a Roma, ma il fatto di avere scelto per la terza fase la chiesa di Sant’Agostino ha proposto il lavoro in una diversa ottica: una chiesa sconsacrata nella quale dare vita ad un rito di comunicazione e condivisione è stata una bella sfida.
La terza fase della performance si è quindi presentata in maniera del tutto nuova: a rimanere saldo è stato il nucleo forte della ricerca di Liuba, la convivenza tra le varie forme di religione, ben impersonato dal velo appositamente creato insieme alla stilista Elisabetta Bianchetti che riproduceva immagini degli edifici di culto di New York. L’artista si è posta come il fulcro concettuale del lavoro, ma l’idea stessa della performance collettiva ha per certi versi richiamato le origini stesse di questo linguaggio, gli Happening Fluxus.
Il fatto che l’evento sia avvenuto in uno spazio pubblico e museale propone oggi un ulteriore elemento di novità: dalla sua nascita, la performance è stata destinata preferibilmente a luoghi alternativi e solo in tempi recenti è stata accolta in spazi museali, per artisti di riconosciuta fama, come Marina Abramovic, o nell’ambito di progetti innovativi come quelli di Tino Sehgal alla Tate Modern.
La scelta è stata comunque di porre in evidenza il procedere del progetto, proiettando sul muro destro e su uno dei grandi teli appesi alla navata centrale, le immagini dei video delle performance di Venezia e di Roma e preparando lo spettatore a quel che sarebbe successo.
Nell’incontro preparatorio precedente l’evento vero e proprio, Liuba ha illustrato le sue idee ai partecipanti con un invito a seguire un proprio percorso di gesti e liberazione ed esso si è rivelato una sorta di termometro di quanto avviene oggi nella società. Tra le persone presentatesi, molte erano spinte dal desiderio di condividere ideali di pace e trascendenza spesso trascurati, mentre alcuni artisti che già avevano compiuto performance si sono dimostrati interessati a prendere parte a “The Finger and the Moon #3”, per testimoniare la propria presenza, fornendo un contributo in qualche modo più specifico.
Nella costruzione della performance, l’elemento temporale, sempre centrale in questa forma d’arte che avviene dal vivo, si è complicato nella combinazione tra la volontà di lasciare a ciascun partecipante la propria libertà espressiva e la necessità di costruire un flusso di gesti e movimenti legati alla musica e ad una durata non rigidamente stabilita, ma dipendente dalle azioni di Liuba.
Mentre il momento si avvicinava e calava la sera, sono entrate persone spinte dalla curiosità, che avevano letto dell’evento su Internet e volevano assistere. Non sono mancati problemi tecnici, come quello dell’illuminazione, che doveva essere fioca, per avvolgere la performance nella necessaria sacralità, ma non tanto da impedire fotografie e riprese.
Poco prima dell’inizio, la tensione di Liuba, era altissima: il lavoro così vasto ed infaticabile stava arrivando al suo culmine e i tanti piccoli imprevisti dell’ultimo momento sembravano impedirle di dedicare alla sua concentrazione il tempo necessario.
Una volta indossato l’abito, quando l’artista ha preso posto sulla scala dell’auditorium, circondata dai partecipanti alla performance, tra i quali spiccava il turbante del sikh, lo spazio intorno a lei si è circondato di una sacralità diffusa, nella quale, scendendo la scala, ognuno ha trovato una propria posizione e ritualità.
Mentre Liuba pregava seguendo i dettami di tutte le religioni, c’era chi aveva trovato all’interno della navata centrale un proprio spazio anche interiore e chi si spostava continuamente, chi compiva un proprio percorso rituale e chi all’inizio faticava a trovare un ritmo, intimidito dagli spettatori, che, malgrado gli inviti, difficilmente hanno varcato lo spazio simbolico nel quale si stava svolgendo la performance.
Una grande e sospesa emozione si era diffusa tra i presenti, pervasi da una magia straordinaria. L’intero evento si è svolto nel più assoluto silenzio del pubblico. Solo la musica prevista, un insieme di canti e musiche combinati da Liuba, ha accompagnato i movimenti dell’artista e dei suoi compagni. Quasi nessun rumore ed un’intenta partecipazione hanno avvolto la navata centrale, si udivano solo gli scatti delle macchine fotografiche.
Al termine, una corda umana è uscita sul sagrato di Sant’Agostino a portare simbolicamente l’arte e la spiritualità fuori dal luogo deputato e dentro la città e la vita di tutti i giorni.
Ripensando al progetto a qualche mese di distanza, l’importanza dell’iniziativa balza agli occhi e rivela come questa via sia ancora da percorrere, per riguadagnare all’arte quel ruolo pubblico del quale oggi la società ha sempre più bisogno.
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